Qualcosa di faticoso
Esperimenti
Questo numero di Qualcosa racconta un esperimento iniziato per caso e continuato con consapevolezza. Non c’entra la scienza, non ci sono pillole blu o rosse. Ci sono solo una madre che desidera riprendersi spazi e tempi e una figlia che può benissimo stare lontana dalla prima.
Da quando Lila è nata non ci siamo allontanate quasi mai: non c’è mai stato bisogno e non ho mai spinto perché accadesse. Quest’anno è partita la stagione dei pigiama party e magia, ha dormito serena a casa di altrз, senza risvegli notturni e senza che noi dovessimo uscire alle tre del mattino per recuperarla, cosa che mi ero prefigurata accadesse. Ho capito dopo tre anni che si, potevamo allontanarci, senza drammi. Forse ci ho messo troppo tempo, probabilmente mi sono fatta più problemi di quelli realmente esistenti. In questi anni, però, ho anche dovuto fare pace con una discrepanza: l’idea di maternità che mi portavo dietro ha smesso di combaciare con me, con Alice e con i suoi nuovi desideri.
Idealizzare la maternità
Devo ammetterlo, ho idealizzato a lungo la maternità, convincendomi che esserci sempre, senza respirare un attimo facesse parte del pacchetto. È anche vero che non avevo altre opzioni. Per tre anni mio marito ha lavorato dall’altra parte della città, sei giorni su sette. Probabilmente se non mi fossi aggrappata alla gioia di essere madre mi sarei spezzata. Trovare appigli non è stato facile manco per niente: tutte le volte che ho provato a prendermi i miei spazi, durante i primi mesi soprattutto, mi sono scontrata con l’impossibilità di farlo provando tantissima frustrazione.
Poi ho smesso di provarci, di avercela con me stessa, con Lila e con mio marito. Mi sono fatta avvolgere da quei tempi sospesi, senza pianificazione, e con questo nuovo approccio fatalistico sono riuscita pian piano a recuperare piccole parti di me, rivedendo anche l’idea che avevo della maternità, ampliandola, rendendola più veritiera e meno zuccherina. Ne ho compreso la complessità, le mille sfaccettature che assume rispetto alla donna che la vive, che la indossa. Ho compreso i perché di chi non vuole avere figlз, e di chi invece fa di tutto per averli, di chi non vuole allattare, di chi ci prova e ci riesce e di chi non ci riesce. Ho capito che va bene tutto, perché le regole in maternità sono insensate. Ora so che è vero che serve un villaggio per crescere unǝ bambinǝ e che non bisogna mai avere paura o vergogna di chiedere aiuto. Altra cosa fondamentale: ogni tanto bisogna staccare dalla genitorialità, per non uscire di testa.
Questa cosa qui, l’ho capita con l’esperimento iniziato per caso a metà giugno: sono rimasta sola per due giorni, senza marito e figlia.
La sensazione che ho provato, appena sono usciti di casa, è stata di liberazione. Mi sembrava di poter fare qualunque cosa. Ho rivissuto l’esperienza dello stare da sola dentro casa, di sabato e di domenica, senza dover lavorare o occuparmi di altro o altrз. Ho mangiato a degli orari bislacchi, sul divano, mentre guardavo Grace & Frankie, ho scritto, disegnato, letto senza essere interrotta mai una volta. Sono anche andata a una festa, ho bevuto, ballato e sono tornata tardi.
E si, é stato una bomba.
Era da così tanto tempo che non andavo a una festa di compleanno di persone adulte che quasi non ricordavo come fare. Inoltre la festa aveva una regola, imposta da Sara, la festeggiata: no bambinз. Credo sia stato l’elemento scatenante di questo numero di Qualcosa. Mentre alla festa guardavo Sara ballare, libera come non avevo mai visto una persona esserlo, ho avuto un’illuminazione, che chiamerei da open bar. Quel ‘divieto’, che mi era parso insensato in un primo momento, era in realtà un regalo che lei stava facendo a tuttз noi. Voleva regalarci un tempo solo nostro, uno spazio dove essere quellз di un tempo, dove non avere pensieri. Ci ha regalato la libertà, la stessa che sprigionava mentre ballava, bellissima nei suoi nuovi 40 anni.
Due precisazioni
Mi rileggo e mi saltano all’occhio le parole liberazione e libertà e penso che probabilmente vi sembrerà esagerato il loro utilizzo. Ma no, non lo è. Diventi madre e smetti di essere sola: ci sei tu e poi, un’altra persona. Questa dipende da te, desidera la tua attenzione costantemente, ripete il tuo nuovo nome mille volte, si aggrappa, si avvinghia, si abbarbica su di te, anche se fa caldo, anche se stai male.
È una persona per cui devi esserci sempre, o quasi. E questo vale anche se dividi la genitorialità con un’altra persona.
Mi rileggo e mi chiedo se abbia senso specificare che amo tanto mia figlia. Ne ha? Serve a rassicurarvi o è per me, per silenziare il mio senso di colpa, nonostante abbia piena consapevolezza che sia una madornale stronzata? Cosa mette in luce tutto ciò? Sarà perché come donne e come madri ci sentiamo sempre osservate, sempre sotto giudizio, sotto esame, nostro e altrui, e per questo sentiamo di doverci giustificare?
Amo mia figlia Lila ma amo anche me stessa. Non me ne vergogno e non mi vergogno di dire che a volte è bello staccare da lei, altre volte invece mi sento tristissima. Come ai primi di luglio, quando Lila è partita con la nonna per la seconda parte dell’esperimento. Siamo state lontane per otto giorni a una distanza di 484,90 km. Vederla entrare ai controlli in aeroporto è stato un colpo al cuore: sembrava un’adorabile giapponese in vacanza con la sua valigetta a forma di coccinella. E lì ho fatto crac. Mi sono fatta un piantarello dietro agli occhiali da sole, di nascosto, mentre lei ci faceva ciao, tutta emozionata.
Immaginavo sarebbe stato strano ma anche rilassante. E invece per otto giorni abbiamo fatto del bingewatching, lavorato fino alle 21, mai fatto spesa, se non di pomodori e cena alle 22, fuori il più delle volte. Ho capito quindi che Lila spesso è stancante, testarda come un’adolescente, volubile come Madame Bovary, ma è anche la nostra parte adulta, fa in modo di riportarci con i piedi per terra, evita che ci abbruttiamo davanti a un computer, ci fa ricordare le cose importanti, tipo fare la spesa e vivere. In quegli otto giorni mi sono anche ricordata che tutte le volte che pensiamo che lз nostrз figlз non riusciranno ad affrontare una cosa nuova, arrovellandoci per fargliela affrontare nei migliori dei modi, loro ci mostreranno di saperlo fare benissimo.
È stato così il primo giorno di nido, la prima volta che è stata ricoverata in un ospedale, la prima notte che ha dormito fuori senza di noi e tutte le altre prime volte che mi facevano paurissima. Tutte le volte è stato un “vedi mamma? Ce la faccio, non preoccuparti”. Anche durante le videochiamate lei è stata sempre serena e felice, perfino cresciuta: usava vocaboli nuovi, chiacchierava raccontando le sue giornate con dei gesti da bambina grande e noi la osservavamo meravigliatз. Quando ci siamo ritrovatз è stato bellissimo, poi pian piano ha iniziato a renderci il conto di quel distacco. Buona parte di questo numero ho dovuto scriverlo ritaglindomi degli spazi con fatica, chiedendole il permesso e rimandando le sue necessità a altre persone, a un tempo altro. E tutte le volte l’ho fatto sentendomi in colpa, e dispiacendomi.
Vorrei dirvi, chiunque voi siate: non giudicateci. Sappiate che ci sentiamo costantemente sopra un’altalena emotiva, in continua metamorfosi e ogni giorno scopriamo nuove cose di noi e cerchiamo di affermarle, a noi stesse in primis. La società ci vuole madri h24 ma anche lavoratrici fulltime (ciao Elisabetta Franchi!). Noi vorremmo essere solo noi stesse e essere meno stanche, fisicamente e psicologicamente. Perché si, siamo stanche e dovremo iniziare a dirlo tutte le volte che possiamo, senza vergognarcene.
Ho appena finito La figlia oscura di Elena Ferrante, perché mi sembrava di dover trovare delle risposte che mi aiutassero a scrivere questo numero. Quando Ferrante parla di donne e maternità non la tocca mai piano, va giù in profondità e ti racconta tutte le storture, le brutture, i pensieri più segreti e vischiosi di noi donne. Devo ringraziare Serena Blasi per averne parlato nelle sue storie sulla genitorialità e soprattutto per il suo hashtag che ha lanciato su Ig, #MADRELIBERATUTTE, con l’obiettivo di alleggerire il carico delle altre madri: la ringrazio perché ha illuminato i miei pensieri su questo numero di Qualcosa.
Sto leggendo La rabbia ti fa bella di Soraya Chemaly, traduzione di Linda Martini. Avrò letto meno di 100 pagine ma già mi sono sentita tirata in ballo più volte: come donna, come figlia e madre.
Lo sto leggendo con molta attenzione perché vorrei che di rabbia femminile si parlasse di più, senza vergogna. Credo poi che ci aspettino dei tempi in cui sarà necessario arrabbiarsi e alzare la voce, forte, soprattutto per noi donne. Me lo ha consigliato Alice Orrù, esperta di copywriting inclusivo, che guarda caso ha anche una bellissima newsletter, Ojalà, che vi consiglio spassionatamente.
Leggerò la raccolta di racconti Ragioni per vivere di Amy Hempel, con la traduzione di Silvia Pareschi. È il secondo tentativo che faccio. Vediamo come va stavolta.
Stavolta il mio consiglio riguarda qualcosa che ha un po’ a che fare con il tema di questa newsletter: prendersi del tempo lo abbiamo capito non è mai facile, ma ho scoperto una cosa, grazie a Nina Gigante, che dura solo 5 minuti e che mi fa stare benissimo. Si tratta della spazzolatura a secco, o Garshana: si friziona il corpo con una spazzola partendo dai piedi, per passare alle mani e al resto del corpo in direzione del cuore. In questi giorni stressanti ha funzionato alla grande. Se vi va di provare, trovate il video di Nina con tutte le info qui.
Scrivere questo numero è stato faticoso ma sono felice di non essermi presa una pausa. Ecco perché Qualcosa arriverà anche ad agosto, in una versione un po’ brezza marina, leggera ecco.
Bevete l’acqua, spazzolatevi il corpo, e mettete la protezione solare.
E se vi va, rispondete a questa mail: è sempre bello leggervi.
Cià, Alice